Whatever you're going through I wanna be there for you
Dunque. Questa è una fanfic Chair. E una fanfic Serenate.
Perchè io sono Chair e Serenate, convinta anche<3
C'è spazio anche per gli altri, ma mi concentrerò prevalentemente su di loro XD
I primi due capitoli sono un prologo, con quello che è successo dall'ILY moment [visto secondo me] in poi.
Ho già scritto un sacco di capitoli, ma ne pubblico un po' alla volta perchè devo revisionare XD Comunque vi lascio la lista, sperando di incuriosirvi un pochetto almeno!
Aggiorno man mano...
1. Un sospiro – prologo part 1
2. Quella volta – prologo part 2
3. L’ennesimo sorriso
4. Flash
5. La lacrima nello scrigno
6. Aiuto
7. La guerra fredda
8. Legno bagnato e viottoli pieni di sogni
9. Sguardo giusto ; Parole giuste
10. Quel ciuffo di capelli particolarmente biondo
11. I desideri12. Le undici in punto
13. Sushi e tempura ; ricordi e incontri
14. Delirio
15. Breaking News
16. Ho dimenticato di ricordarmi di dimenticare [I forgot to remember to forget]
17. Qualcosa di indispensabile
18.
19. Stella cadente
20. Previously
21. Favole, la sostanza dei sogni
22. Da qui è tutto: vi restituisco la linea
23. Steso ; freddo ; immobile
24. Sympathy for the devil
25. It’s a romantic thing
Pubblico i primi tre capitoli!
Un sospiro prologo – part 1Chuck ; BlairLe si avvicinò piano, con cautela.
Si mordeva il labbro inferiore, come faceva sempre quando era agitata. Qualcosa sembrava dare testate alla bocca del suo stomaco. “Qualche migliaia di farfalle inferocite” non potè fare a meno di pensare. Non importava quante volte se ne fosse andato, non importava quante volte le avesse sbattuto in faccia che di lei non gliene importava niente. La conoscenza che sentiva di avere di quegli occhi era qualcosa che andava oltre. Oltre al rumore delle gocce di pioggia che si schiantavano malvagie contro i vetri dei grattacieli, oltre il rumore delle auto frenetiche nel centro di Manhattan, oltre alle parole che uscivano come un sibilo dalla sottile fessura della sua bocca.
Non riusciva a trattenere le lacrime, non questa volta, non ancora una volta. Non avrebbe fatto un’altra volta la figura dell’emotiva, le sue lacrime si sarebbero confuse sotto i palloncini grondi che scendevano dalle nubi nere.
Non sembravano le 5 del pomeriggio. Si sarebbe detta notte inoltrata.
Ma i fischi della metro e il caos urbano non lasciavano spazio a dubbi. New York è una città che vive di notte, ma chi vi abita ne conosce perfettamente profumi e odori. E la notte di New York ha un gusto inconfondibile. Di certo non confondibile con quello che si respira alle 5 del pomeriggio.
Un sospiro.
Un altro passo verso di lei. Il ritmo dei suoi battiti cardiaci andava di pari passo con quello dei suoi passi. Il che ne avrebbe decretato sicuramente la morte se non avesse reso il tutto un po’ più rapido.
Erano tre stupidissime parole. Tre parole, otto lettere. E sarebbe stata sua. Ricordava perfettamente il suo viso, le sue labbra strette, il corpo in tensione, stretto nell’abito bianco e impeccabile, mentre gli dava quel maledetto ultimatum. E si ricordava i suoi occhi pieni di speranza e poi di viva delusione. Non si era bloccato per il conte, no affatto. Il punto è che non sapeva perché si era bloccato, non sapeva perché ogni nervo del suo corpo era stato congelato davanti a una richiesta così semplice e così terribilmente spaventosa. Vedeva il suo labbro tremare e in qualche punto, tingersi di viola purpureo. Avrebbe fato qualunque cosa per avere la forza di avvicinarsi a lei, spostarle quella ciocca ribelle dalla fronte e portarla al caldo, al riparo, al sicuro.
Ma la pioggia continuava a cadere, ancora, ancora e ancora. Ogni tanto un cupo fragore in lontananza, forse un tuono, chissà.
Un sospiro.
Pensò a tutte le volte che lei c’era stata. Tutte le volte che semplicemente era stata lì, senza volere, senza pretendere. Nessun interesse a parte che lui. La prima persona che aveva creduto in lui, che gli aveva dato un’opportunità.
E per un secondo, i loro pensieri ballarono all’unisono, sulle note della stessa canzone. Quel pensiero così strano, malvagio, ributtante un tempo, ora pareva l’unica cosa che avesse un minimo di senso. “Dare un senso alla vita stando insieme”, la consapevolezza che nessuno li avrebbe mai capiti fino in fondo, la gente che si ferma alla prima fermata, che legge solo la trama invece del libro intero. Nessuno avrebbe davvero capito cosa c’era in fondo alle loro anime, dove fossero le loro anime. Quello avrebbero fatto l’uno per l’altra.
Sarebbe stato molto poetico se in quel momento fosse spuntato il sole o se una farfalla avesse sorvolato le loro feste, ma siamo a Manhattan, diamine. Non fece altro che continuare a diluviare.
Un sospiro.
Ancora un altro passo. Ancora. Ancora.
Si fermò a un passo, come davanti a una statua dalla meravigliosa fattura, che hai paura di rovinare o addirittura rompere.
La mano sulla guancia, ancora una volta.
Un sospiro.
Le sue mani erano fredde e bagnate. Ma le labbra erano come se le ricordava, morbide, esperte, appassionate. L’elemento dolcezza, quello non solo non se lo ricordava, ma non avrebbe mai pensato avrebbe mai potuto assaporare da lui. Ora bisogna ammettere che fu solamente una piacevole scoperta.
Il sospiro più grande che avesse mai fatto. Poi un sibilo “I love you”. Si confuse tra la pioggia, ma lei non poteva averlo confuso.
L’espressione tesa, quasi imbronciata, ma per una volta, sincera. Le labbra appena dischiuse
“I love you” ripeté in modo ancora più elegante.
Il suo viso così pallido e deluso si colorò di un rosa antico, tenue, ma acceso.
“Say it twice”
“Non ti ci abituare, Waldorf”
Mentre la pioggia continuava a battere sui loro visi, ma non sulle loro labbra.
Questo l'avevo già pubblicato come One Shot, e ora mi è diventato prologo XDQuella volta prologo – part 2Blair ; Chuck
“Non mi ci dovrei abituare?!”
Ancora un bacio.
Più appassionato, più profondo. Uno sul collo, i suoi capelli tra le mani. Poi ferma, con gli occhi seri lo fissò “Seriously, say it twice” ancora una volta rigida, non la stessa rigidezza della prima volta, ma abbastanza da fargliela ricordare.
Stavolta il suo viso si colorò di sorriso “right. Se proprio ci tieni… I love you, I love you…”
“se proprio ci tengo?!” e gli mollò un pugno sulla spalla. Era davvero troppo tempo che non gli tirava un bel pugno. Aveva nostalgia di quei pugni, aveva nostalgia dei cazzotti, degli spintoni, perfino dei calci con i tacchi. Sapere all’improvviso di poter riavere di nuovo quei momenti gli fece scorrere un brivido lungo la schiena. Ma forse era solo la pioggia, che ogni minuto si faceva più intensa e pressante.
Ormai ogni fibra del loro corpo era inzuppata. Il freddo rendeva insensibile ogni centimetro di pelle che l’aria riusciva a pungere.
B sentì la mano gelida scorrerle lungo la linea sinuosa della spalla, fino a stringerle con eleganza la mano bagnata. La tirò ancora un po’ vicino a sé. Sempre un po’ di più di prima.
Con la mano libera C aprì la portiera della limo, che restituì un cigolio sordo. Non aveva paura di affondare nell’enorme lago sotto di lei. Né in quello dell’asfalto, né in quello dell’abisso. La paura e l’eccitazione, la gioia e l’incredulità cercavano di farsi spazio, salendo mano a mano ogni costola, volevano liberarsi, districare i fili confusi che non riuscivano a costruire un sorriso sul suo volto. Quello che avrebbe fatto, se non fosse stato tutto così meravigliosamente improvviso, sarebbe un enorme, ebete, sorriso. Ma non era possibile in quel momento. L’agitazione e insieme la sicurezza della prima volta, quella prima volta che le era piaciuta, e che mai, mai nessuno dei due aveva mai scordato, la facevano da padrone, infettavano ogni centimetro del suo essere, sopraffacendo anche le più comuni espressioni facciali.
L’acqua iniziò a gocciolare dal riverbero del cappotto che C aveva posato sulle sue spalle per farla asciugare almeno un po’. Plinc. Plic.
Scandiva il tempo. Plic. Plic. Accartocciato, ora immobile. Solo il rumore dei loro respiri, nemmeno il battito del cuore aveva il coraggio di interrompere quel momento.
L’autista iniziò a chiedersi che cosa stesse succedendo là dietro. Non che ci volesse molta immaginazione per averne la certezza, praticamente, assoluta. D’altronde, mister Chuck amava ripetere che “il retro della limo è sacro”. Che cosa lo avesse fatto diventare tale, questa era una cosa da non chiedersi, una fantasia proibita ai più, sicuramente a lui. Aveva visto le più belle ragazze di New York salire su quella limo, ma con miss B le cose divenivano sempre diverse. Mister C aveva iniziato ad appellare sacra la sua limo dopo quella volta. La notte al Victrola.
La notte che aveva cambiato il corso della storia. Una notte epica.
Di certo entrambi ricordavano con vivida chiarezza quella volta.
La notte in cui avevano letteralmente mandato affanculo il mondo e si erano lasciati andare.
La prima volta che si era spogliata per lui. La notte in cui, ancora una volta, aveva visto un’altra faccia di B. Aveva già visto la ragazzina delusa, aveva visto la vincitrice orgogliosa. Aveva visto l’amica fedele e la fidanzata ideale. Aveva osservato da vicino la più timida alchimia, la più vivida comprensione e la cattiva complicità. Lei, lei che era stata l’unica a essere, anche solo per un attimo, orgogliosa di lui. Lei che gli teneva i capelli e gli ficcava due dita in gola se la sbornia era troppo pesante.
N guardava S. Osservava i suoi bei capelli lisci e ammirava la sua inclinazione all’allegria e alla spensieratezza. Non guardava B come guardava S. Non era mai stato capace e mai lo sarebbe stato. Per questo quella volta gli aveva detto “You don’t belog with N. Never have. Never will”
E l’aveva baciata, con trasporto, con passione, con tenerezza, anche se probabilmente lei non l’aveva colta. Proprio come adesso, la baciava e con quei baci, cercava di dirle tutto quello che era incapace, inadatto a dire a voce. Perché …… come fai a far capire a qualcuno che lo ami?
Non puoi semplicemente andare lì e dire “I love you”. Sbattuto sui denti, pensando a quale di quelle parole sia veramente uscita dalla tua bocca. Non è vero, non è giusto, non è elegante, non è sincero, non è da Chuck Bass.
B voleva quello, e quello le aveva dato, perché non riusciva più a stare senza respirare il profumo dei suoi capelli e scrutare il profondo scuro dei suoi occhi. Ma già tante volte le aveva dimostrato che la amava. Quasi tante volte quante l’aveva ferita e calpestata.
Perché la vita fa schifo, e tutto questo è sbagliato, e la gente soffre. Le persone muoiono, e mentono e feriscono.
Ma su quel sedile, quella sera, proprio come quella volta, c’erano solo Chuck Bass e Blair Waldorf. C’erano solo le loro pelli che diventano un tutt’uno.
L’unico spettatore pagante resta NYC. Le sue luci osservano lo spallino che si abbassa. Il grattacielo grigio mare vede i palmi aperti delle mani che si chiudono delicatamente sulla schiena e sulla spalla.
La Città vede due anime che, finalmente, hanno ritrovato il loro pezzo mancante.
Qui ho reso Serena protagonista. C’è in ballo la cena di famiglia e Chuck. E Nate, e Dan, maybe, XD3. L’ennesimo sorrisoSerena
Serena sorseggiò ancora una volta il suo cocktail, visibilmente annoiata.
“Um um” rispose per l’ennesima volta a chissà quale altra frase che la madre le stava rivolgendo. Usciva a cena con Rufus, quella sera. Sarebbe stato molto più interessante se i patti fossero rimasti quelli di una volta, ma essere la vedova più ricca di New York City aveva i suoi svantaggi. Quello a cui Serena sarebbe stata felicissima di assistere era, nei piani, una cena di famiglia. Lily, Rufus, Dan, Jenny, Eric, Chuck e lei. Magari avrebbe fatto a gara con Chuck per chi per primo fosse riuscito ad afferrare il telefono e invitare Blair. Non è un’occasione a cui la sua B avrebbe voluto mancare, anche se magari questa volta sarebbe stata più nervosa del normale. Comprensibile, e sorrise.
Sarebbe stata un’occasione interessante, certo, ai limiti del ridicolo, ma avrebbe dato la prova del nove. E sarebbe stato qualcosa che valeva la pena raccontare, perlomeno.
Serena fissò ancora una volta la medesima riga della rivista, sospettava di averla aperta al contrario. Finalmente si voltò a guardare la madre.
In alto, in basso, un soffio ancora più in alto, la lingua contratta. Stava sicuramente proliferando qualche ingegnosa scusa sui fondi fiduciari e sul consiglio di amministrazione. Ecchisenefrega.
La sciarpa attorno al collo doveva essere così stretta che si chiese come la madre riuscisse a dire così tante parole allo stesso tempo.
Il grande orologio meccanico scandiva i secondi, tic tac, tic tic, tac.
Serena arricciò le labbra in un mezzo sorriso e rivolse il volto sereno e accondiscendente alla madre. “Sicuro, mamma” disse convinta.
Lily la fissò negli occhi per un secondo, preoccupata per qualcosa, poi si sistemò la collana di perle e le mandò un bacio. “Tornerò domani notte… al massimo, promessp”
“Donani notte?” Serena si rese conto di essersi persa un pezzo fondamentale di quel chilometrico discorso e una ruga si materializzò automaticamente sulla sua fronte.
Lily si morse il labbro e Serena seppe che non era un buon segno. Si accucciò ancora di più sul divano, sentiva la pelle fresca a contatto con le gambe, ma continuava a sorridere.
“Ok. Rufus ti spiegherà tutto in molto meno tempo, ti voglio bene, stai attenta a tuo fratello e…” salvata dal telefono, Serena baciò la madre sulla guancia e si precipitò fuori dalla stanza. L’enorme cucina aveva qualcosa di accogliente dopo che Rufus era entrato in scena, aveva liquidato la cuoca e ne aveva fatto il suo regno. Aveva appeso delle presine colorate al muro e qualche piatto era ancora sul tavolo. Sulla tavola, normalmente impeccabile, era stata rovesciata della cioccolato in polvere nel punto in cui aveva fatto colazione, e del sale nel punto in cui aveva preparato il pranzo di Jenny. Era un gran casinista, ma questo la fece sorridere. Ancora. Il telefono era appeso al muro. Era appiccicoso e emanavo odore di limone. Ci doveva essere una torta nascosta in uno dei tre forni.
“Dan! sono io, dovrei parlare con Rufus. è per mia mamma”
Intrattenersi in chiacchiere con Dan era fin troppo facile. Mentre aspettava le ore che ci volevano perché Rufus si decidesse a prendere il telefono, Dan le raccontò del suo nuovo pezzo, di quel caffè alle meringhe che aveva sentito in mattinata, e che Vanessa era tornata dall’Europa con due zaini invece di uno, e che aveva un regalo anche per lei.
Mentre rigirava tra le mani il filo della cornetta, si visualizzò Dan. Non troppo bello, non troppo brutto, un tipo simpatico, intelligente, traditore. Pensò alla sua mano calda che accarezzava la sua pelle pallida, pensò al gelo del suo cervello mentre faceva quella foto. Ma poi la spiaggia, la neve, quell’ascensore, quel ballo…
“Serena?” una lunga ciocca di capelli biondi e bagnati le ricadeva davanti al viso, la scostò con delicatezza e si schiarì voce e cervello, stavolta doveva ascoltare.
Rufus, più praticamente, le spiegò che lui e Lily sarebbero stati a un ciclo di conferenze a Washington e che lei avrebbe dovuto farle l’enorme piacere di andare a prendere Eric alla stazione. il suo Eric era stato a casa di Johnatan, per due settimane. Le mancava il suo saggio saputello, e non vedeva l’ora di rivederlo. Si ritrovò ancora una volta a sorridere di gusto.
Tagliò due fette di torta al limone e si diresse in fretta verso camera di Chuck, per comunicargli le ultime notizie e per fargli presente che la cena di famiglia era, per ora, saltata.
I soliti due tocchi alla porta di mogano nero, i soliti tre secondi di attesa e spalancò con grazia la porta. Il fatto di vedere Chuck davanti allo specchio che si provava l’ennesima cravatta, la fece ridere ancora. “Eheh! Prova generale?”
Chuck osservò un attimo la sua tenuta sfatta da piscina e le sorrise di rimando.
I capelli erano ancora bagnati e gocciolavano sul pavimento di legno. I pantaloncini bianchi erano tutti stropicciati e la camicia abbottonata male. Non molto da Serena Van Der Woodsen, a dire il vero.
“Dimmi che questa cena e annullata e posso pensare di accontentare una delle tue richieste”
“Parli delle lista del buon fratello? Credo che si potrebbe iniziare dal punto tre, è il più urgente al momento” con aria tra la sfida e il divertito.
“Dio esiste” sussurrò Chuck e lanciò la cravatta blu che si stava provando in mezzo al mucchio che si era creato sul pavimento. Sul comodino un libro e una cornice argentata. Sul letto, oltre i vestiti il cellulare e la coperta blu velluto che Serena avrebbe tanto voluto rubare uno di quei giorni.
Con un rado sorriso, Chuck si accasciò sul letto, le braccia allargate a coprire l’intera superficie del letto. “Spiega a cosa devo questa fortuna”
Vedere il nervosismo, e poi il sollievo, nelle profonde fessure che Chuck aveva al posto degli occhi al pensiero di quella cena di famiglia annullata la fece ridere per l’ennesima volta quel pomeriggio afoso.
Fu l’ultima volta, quel giorno.
Questo è solo l'inizio ;D
Ora corro a leggere la fanfic di Laura, fatemi sapere se volete che continui a postare!Edited by marci# - 29/8/2009, 23:16